Di Alessandra Pozzati
Vetro, acciaio, silicone, squalo, soluzione al 5% di formaldeide. Il prezzo? Dodici milioni di dollari. Si tratta di The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, meglio noto ai più come “lo squalo” di Damien Hirst, realizzato dall’artista nel 1991 e protagonista del libro “Lo squalo da dodici milioni di dollari” scritto dall’economista Donald Thompson.
Impossibile da mettere in salotto – misura la bellezza di quasi sei metri e mezzo di lunghezza per poco più di due metri di altezza e altrettanti di profondità – e con notevoli problemi di conservazione, chi mai si sognerebbe di acquistare un’opera del genere? Chi sarebbe disposto a pagare una cifra del genere? Perché? E come si arriva a determinare un simile sbalorditivo prezzo? A queste domande risponde Thompson che, con una prosa scorrevole e con un linguaggio chiaro, lontano dai tecnicismi del gergo economico, ci guida alla scoperta del mondo del mercato dell’arte contemporanea e dei suoi meccanismi.
Dalla creazione di un brand di successo (sia esso incarnato da una galleria come Gagosian o dall’artista stesso come nei casi esemplari di Damien Hirst e Jeff Koons) fino all’attribuzione del prezzo finale, l’economista ripercorre tutte le tappe che concorrono alla costruzione del valore di mercato di un’opera d’arte, spiegando quale ruolo rivestano in questo processo gli artisti, i ricchi collezionisti, le grandi case d’asta, i galleristi più influenti, le sempre più numerose fiere di settore e il lavoro di critici e musei.
Ventitré capitoli che si leggono tutti d’un fiato, alla scoperta di un mondo che spesso appare elitario e inaccessibile, ma che Thompson ci aiuta a penetrare, raccontandoci tutto sul funzionamento delle aste e sui colossi che le organizzano (Christie’s e Sotheby’s), illustrandoci quanto possa essere complessa e ricca di influenze per il mercato la figura del gallerista o del collezionista (Charles Saatchi docet) e spiegandoci che il binomio arte – soldi, per quanto riguarda la contemporaneità, è quasi sempre inscindibile.
Artisti-star, al pari di veri e propri brand, producono opere che accorti galleristi, si apprestano a rendere appetibili per i più facoltosi collezionisti, pronti ad accaparrarsele in duelli all’ultima offerta alle aste, dove vengono battute a cifre iperboliche, accreditando ulteriormente il nome del loro creatore sulla scena artistica internazionale e gettando le basi per future vendite di nuove opere a prezzi da capogiro. Un circolo vizioso che sembrerebbe fare dell’arte contemporanea un settore di investimento vantaggioso e di cui non dovremmo stupirci. D’altra parte lo aveva detto Andy Warhol, l’artista-brand per eccellenza: “Fare denaro è un’arte. Lavorare è un’arte. Un buon affare è il massimo di tutte le arti”.