[Mostre Passate]
La mostra ADOLFO WILDT (1868–1931) L’ULTIMO SIMBOLISTA alla GAM Galleria d’Arte Moderna di Milano, in collaborazione con il Musées d’Orsay e l’Orangerie di Parigi, presenta 50 sculture dell’artista milanese in gesso, marmo e bronzo, 10 disegni originali e 7 opere a confronto: dalla Vestale di Antonio Canova ai lavori dei suoi allievi Fausto Melotti e Lucio Fontana.
«Io voglio cantare, non narrare; esaltare, non descrivere.» A. Wildt

Wildt nasce e svolge la sua intera attività artistica in una Milano in fermento, terreno fertile della Scapigliatura di Giuseppe Grandi, ma anche della cultura impressionista di Medardo Rosso, poi del giovane movimento futurista affascinato dall’industriale «città d’oro e di ferro».
Wildt può essere visto come il “fastoso crepuscolo della scultura”, di quell’arte del marmo a cui lui stesso aveva dedicato l’ultimo trattato e l’ultima Scuola, quella scultura tradizionale “per via di levare”. In realtà si tratta di una figura di passaggio, molto vicina alla nostra contemporaneità. Forse sono stati proprio i suoi eroi senza luogo e senza tempo, coi loro volti insieme classici e gotici, manieristi e barocchi a consacrarlo tra i grandi scultori di tutti i tempi.

«Studiamo i Maestri, teniamoli sempre davanti come guida, ma conseguiamo altra vetta senza toccare, senza manomettere, senza contaminare ciò che da loro è stato raggiunto. Con loro ho in comune solamente l’ansia di scolpire per il domani. Dal domani attendo la sanzione.» Lettera di Adolfo Wildt a Ugo Ojetti, Milano, 17 luglio 1928
Wildt aveva il volto rivolto all’indietro, come l’Angelo della storia di Benjamin[1], verso lo stile, la storia, i simboli e la letteratura ma anche gli dèi, gli eroi, i santi, la celebrazione e il monumento, “ma una tempesta dal Paradiso lo spingeva irresistibilmente verso il futuro, cui volgeva le spalle”.[2]

Sei sezioni scandiscono il percorso espositivo, sviluppate secondo un ordine cronologico e per fasi di evoluzione artistica: la mostra si apre con il periodo di formazione a bottega (1885-1906) come assistente di Grandi che culminerà con la prima vera opera “Atte”, detta anche Vedova, del 1892 che ritrae la giovane moglie dello scultore e tanto apprezzata dal suo primo mecenate Franz Rose. Si passa poi al suo periodo buio (1906-1915) durante il quale Wildt mette profondamente in discussione la sua arte, un periodo che si rivelerà di passaggio, una rinascita a partire dall’enigmatica “Trilogia” (1912), dove Wildt pare aver trovato la sua dimensione, in uno stile più tormentato che procede per omissioni, deforma e trasforma i corpi nel gesto del dolore, asciuga l’anatomia fino quasi alla scarnificazione.

La terza parte della mostra affronta un tema caro all’artista “La famiglia mistica” (1915-1918): i soggetti della madre e del figlio, della Madonna e del Bambino presentano un’iconografia nuova, più spirituale, fatta di forme pure e volti che si smaterializzano e si deformano trasportati da emozioni arcaiche e potenti tra la sofferenza e l’estasi, ombre che prendono vita distaccandosi dai bassorilievi.
Una nuova tendenza espressiva che lo allontana sempre di più dalla resa anatomica naturalistica per un semplificazione e astrazione delle forme che raggiungerà il suo apice tra il 1918-1926 raccontata con perizia nella sezione “l’asceta del marmo”.
Nella parte finale della mostra (l’architettura delle forme 1922-1926) caratterizzata per lo più da monumenti e ritratti, si nota un avvicinamento al regime fascista nel 1922 e al movimento artistico del Novecento italiano, promosso da Margherita Sarfatti per il rinnovamento dell’arte italiana nell’ambito del “ritorno all’ordine” europeo. Per concludere con il racconto dei suoi allievi più famosi che, nonostante prendano direzioni diverse fino a giungere all’astrazione pura, riconoscono il debito verso il proprio maestro. Melotti usa la forza della linea e l’armonia fra pieni e vuoti per giungere a un’astrazione dalle corrispondenze musicali, mentre Fontana fa del vuoto l’elemento centrale dei suoi Concetti spaziali. L’insegnamento wildtiano appare infatti nella loro opera non come un modello plastico, ma come guida nella ricerca dell’equilibrio delle forme in un linguaggio radicale.

[1] L’Angelus Novus, da un quadro di Paul Klee, viene descritto dallo storico dell’arte Walter Benjamin, come l’angelo che rappresenta la storia, una figura con il viso rivolto al passato, che vorrebbe trattenersi e risolvere i problemi del suo tempo, le perdite, risanare i dolori. Ma una tempesta – il progresso – spira dal paradiso e lo spinge nel futuro, volgendogli le spalle.
[2] P. MOLA, Avatar e il Laocoonte, in “Wildt, l’anima e le forme”, Catalogo a cura di P. Mola, Silvana Editoriale, Forlì 2012, pp. 19-51
Bibliografia
“Adolfo Wildt (1868-1931). L’ultimo simbolista”, Skira, Milano 2015.